I racconti del Gaunt

Vite senza fine

L'acqua che tocchi de' fiumi è l'ultima di quella che andò
e la prima di quella che viene: così il tempo presente.

Cominciato in Clos, nel castello di Sua Eccellentissima Maestà Francesco, per grazia di Dio e volere del popolo re di Francia, addì 29 di Aprile 1519; e questo fia un raccolto sanza ordine, tratto da molte carte, le quali io ho qui copiate sperando poi metterle per ordine alli lochi loro; esse carte non essendo mai state lette da alcuno, massime dal buon Francesco Melzi cui pur legai in testamento, or son sei giorni, le altre carte e le scritture da me medesimo dianzi raccolte.

Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire; e veggendo omai prossima la fine di mia vita terrena, per far più lieto codesto tempo a me riservato, decisi necessario ch'io avesse a rileggere tutto il passato e scriverlo come non mai lo scrissi. Sì che, lettore, non mi biasimare, perché le cose son molte e tutte la memoria non le può riservare. Ma non sanza meraviglia tu esse leggerai, e ben cagione havvi in questo, inperò che pur ch'io le vedetti e le vissi, reputo esse stesse forte esser nuove e terribili, tal che meglio saría pel mondo ch'esse carte fussero gittate nel foco acciocché niun leggerle possa e di esse compiutamente ragionare.

So bene che per non essere io litterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll'allegare io essere omo sanza lettere. Or non sanno questi che le mie cose son più da esser tratte dalla sperienza, la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio, e quella in tutti casi allegherò.

Già diss'io come l'acquisto di qualunque cognizione è sempre utile allo intelletto, perché potrà scacciare da sé le cose inutili, e riservare le buone. Perché nessuna cosa si può amare nè odiare, se prima non si ha cognizion di quella. Ma prima farò alcuna esperienza, avanti ch'io più oltre proceda, perché mia intenzione è allegare prima l'esperienza, e poi colla ragione dimostrare, perché tale esperienza è costretta in tal modo ad operare.

Sappi dunque, lettore, ch'io non nascetti, come forse pur ti è noto, da ser Piero, notaro in Vinci. Vero è ch'elli esser mio padre naturale tosto ammise, ed io esser di lui figlio e nato li 15 di Aprile 1452 in Anchiano. Ma alli miei giorni mi ricordo aver visto, nella mia puerizia, ragionare ser Piero alcune volte con un viaggiatore, e aver elli sembiante di straniero, e parer'mi ser Piero molta divozione ver lui dimostrare. E pure io conosceva tale figura, e tal mi parea che tristezza velasse lo nobile volto suo, e ser Piero patir gran suplicio. E già vid'io esso straniero in sogno più e più fiate, e tal che elli discorrer con me paresse vago pur ch'io fusse a lui figliolo, e rammentare del loco ove vivessimo e di cui fuggir dovessimo contra la mala fortuna. Tal che io dico ser Piero esser stato a me padre putativo anzi che naturale, e per taluna ragione elli aver mentito dianzi lo potestà e me istesso nel dirsi mio padre, e lo vero padre mio essere colui ch'io alcuna fiata vidi in mia puerizia e pure dopo cotanti anni in sogno alcuna volta il vedo.

Maravigliosa cosa è la memoria, la quale in sogno messaggier di arcane verità massime pare. E nel sogno i' vidi anco la città, e parea ella a me ben nota pur ch'io vera distinguer nol potessi a cagione d'un difetto nel ricordare o nel vedere, siccome oscuri e vaghi e strani appaiono li ricordi e li sogni de li lochi ne li quali consumammo il tempo di nostra antica puerizia. Ma io il servo sicuro e dico essa città esser quella ov'io nascetti, ond'essa appar'mi sì massimamente cara al ricordare ed al sentire, ed in vece esser Anchiano il loco ove, da essa città per taluna cagione dipartiti, arrivammo e rifugio over asilo trovammo. Io doveva essere ben picciola creatura, però che mio padre con ser Pietro facessino lo misterioso patto onde elli, dicendo se essere mio padre naturale, potesse me prendere seco e crescer'mi ed educar'mi sì com'io fusse 'l vero suo figliuolo, et io non vedessi più lo vero padre mio e non dovessi come tale conoscerlo.

Né io cognosco tale città, o lettore, che sempre i' vedo in sogno e pur dipigno e studio, men ch'io sappia ov'essa truovasi o in quale regno stassi. Ma ella io ritenetti ne' li miei studi, e ragionandovi sopra compresi e dicetti essere essa quella ideale sopra l'altre città, massimamente per la disposizione e costruzione. Le sue case sono tramutate e messe per ordine; e questo con facilità si fa, perché tali case son prima fatte di pezzi sopra le piazze e poi si commettono insieme colli legnami nel sito dove si debbono stabilire. E avvi dipresso un fiume che corre, a ciò che non corompessi l'aria alla città; e ancora è comodità di lavare spesso la città quando si leva il sostegno sotto a detta città. E strade diritte corron di sotto ad essa, e fiumi con elle; inperò che niun carro o cavaliere abbia ad arrecar disturbo ai lochi ove giardini e ville e belle case stanno, e ciò è a dirsi il suolo ove le persone gentili movono i passi e tengono i loro offizi.

E ne la città gran multitudine stassi e muovesi, e in cotesta multitudine io vidi innumeri carri che, in guisa di uccello, per forza di vento, levavansi in grande altezza sanza battimento d'alie, e pur esser tal portento cosa massimamente normale, inperò che niun restava istupidito o confuso a tal vista; e ritenetti esser cotali uccelli come navilio per cui lo suo nocchiero mena la grande adunanza che sempre si moveva e andava per la città, e anco di una città in altra.

Tale impressione ebbono codesti sogni ne la mente mia ch'io molti anni posi tutto me stesso a istudiar lo modo del quale potessi l'omo, in guisa di uccello, levarsi e esso medesimo transportare colà ove egli volesse. E osservai li uccelli più e più fiate, e discoversi essi uccelli esser strumento oprante per legge matematica, il quale strumento è in potestà dell'omo poterlo fare con tutti li sua moti, ma non con tanta potenzia; adunque dico che tale strumento composto per l'omo non li manca se non l'anima dello uccello, la quale anima bisogna che sia contrafatta dall'anima dell'omo. Le sue membra sieno dunque di grande resistenzia, acciò che possa sicuramente resistere al furore e impeto del discenso, e le sue giunture di forte mascherecci, e li sua nervi di corde di seta cruda fortissima, e non si impacci alcuno con ferramenti perché presto si schiantano nelle lor torture, o si consumano, per la qual cosa non è da 'npacciarsi con loro. E questo fec'io or son quattuordici anni, e esso uccello pigliossi il primo volo sopra del dosso del suo magnio cecero. E io il feci, e per fermo il tengo, a cagion di quei ch'io vidi, e la mia memoria ritenette, ne la città ov'io nascetti, a li tempi ne' quali io pur infante in essa città ero uso vivere con lo vero padre mio.

Ben so che tu sapere vorresti, lettore, qual fusse cotanta città, e pur io nol so, come a un dipresso il dissi. Ei son tanti anni da che lo mio intelletto s'affise al discovrir quale fusse cotale loco, e donde venissimo e come, in quello ov'io crescetti. Niuna città vi ha che possa ad ella essere uguale, ne la nostra conoscienza. E pur essa era città d'omo, così come io medesmo sono omo e non spirito over altra creatura. Tali erano li miei pensieri, e le ragioni ch'io faceva su la natura d'essa città. E intra me dicevo, se non v'ha loco ove sii cotesta città, e pur esservi deve inperò che io vi nascetti e da essa mi dipartii, come fusse possibile una medema cosa a un tempo istesso di essere e di non essere? Aristotile il tiene fermo, e con giustezza, il non poter darsi che una cosa sii e non sii, che contra la natura e lo intelletto esso anderebbe. E però io compresi, e per vero il tengo, essa città trovarsi assai lungi da costì, e non di leghe quali omo o cavalier percorrer possa, ma più tosto in altra direzione la quale niun cognosce e pur tutti usiamo adire.

E ciò io dico il tempo, lo quale Agostino dicea "distensio animi" e io dico essere in vece uno loco naturale. Benché il tempo sia annumerato in fra le continue quantità, esso, per essere invisibile e sanza corpo, non cade integralmente sotto la geometrica potenza, la quale lo divide per figure e corpi d'infinita varietà, come continuo nelle cose visibili e corporee far si vede; ma sol cò sua primi principi si conviene, cioè col punto e colla linia: il punto nel tempo è da essere equiparato al suo istante, e la linea ha similitudine colla lunghezza d'una quantità di tempo, e siccome i punti son principio e fine della predetta linea, così li instanti son termine e principio di qualunque dato spazio di tempo, e se la linea è divisibile in infinito, lo spazio d'un tempo di tal divisione non è alieno, e se le parti divise della linea sono proporzionabili infra sè, ancora le parti del tempo saranno proporzionabili infra loro. Io dico adunque che niuna differenza havvi infra lo tempo e la lunghezza, per esser esso tempo una lunghezza che come altra dimensione stassi.

Or se il tempo ha le sue linee, che come quelle di natural lunghezza sono, elli deve dunque essere possibile di moversi lungo esse linee del tempo a l'istesso che per quelle de lo spazio, e portar seco in altro e novello loco di tempo sì come viaggiatore muta loco naturale col moversi per le strade. Le strade del tempo niuno le vedette mai, e pur s'io sono qui e scrivo, v'ha da essere stato chi le vide e le percorrette menando seco me, ed elli io dico essere stato mio padre, lo quale per certo omo di grande ingegno e scienzia esser dovette per far sì maraviglioso viaggio. E esso viaggio io dico esser fatto da 'l futuro al preterito, e dunque elli e me essere nati ne lo tempo futuro ove truovasi la città ch'io vidi e le maravigliose cose le quali la mia memoria ancor rinserra. Io non cognosco, lettore, la cagione stessa del fuggir, ma tengo fermo esser essa gravissima; e pur giunti che fummo in nel preterito, over per noi lo tempo presente, elli forse vide essere lo ritorno impossibile e in grande ambascia cedette me a ser Piero in guisa ch'io come di lui figlio crescessi e nulla avessi a sapere per mia tranquilitate.

Sì come lo specchio per riflesso fa destra la mancina, e questa quella; o come 'l guanto che, se il vuoi passare da una mano a l'altra, e pur sempre metterlo, arrovesciare il devi in guisa che lo esterno dentro stassi; così è lo tempo, e tale che il passare da lo futuro al preterito cagiona mutamento tal che l'una parte fassi altra come destra e mancina. Io questo vidi con la geometria; ma niuna umana investigazione si può dimandare vera scienzia, s'essa non passa per le matematiche dimostrazioni; e se tu dirai che le scienzie, che principiano e finiscono nella mente, abbino verità, questo non si concede, ma si niega, per molte ragioni, e prima, che in tali discorsi mentali non accade esperienzia, senza la quale nulla dà di sè certezza. Ecco adunque la prova di ciò ch'io non è guari dissi, ed esser quella facilemente vista in me medémo il qual, come alcun conosce, usa la mano mancina nel dipignere e anco nel scrivere, in guisa di specchio; e per essere essa scrittura arrovesciata occorre siino arrovesciati e membri e nervi e vene, e tale io dico essere effetto del movimento ch'io feci ne la novella direzione attraverso 'l tempo.

Sanza fine è 'l tempo, a guisa di cotale istrumento in foggia di vite che, pur restando fermo, move sue creste e girando cava l'acqua e portala in alto. Dicesi infatti essa vite sanza fine, e par'mi essa rimembrar lo moto del tempo ove, ancora essendo esso stesso immoto, pur esso move li eventi e secondo natura li conduce. E non v'ha moto contrario a men di picciol spostamento, e pur esso ha tosto termine e lo moto diritto non ne cessa. In tal guisa stette la vita mia, che oggi è in su la fine; ella principiò ne lo tempo futuro, e venne nel tempo passato, ov'io vissi rimembrando il futuro ch'io non vidi se non da infante. E ora io bramo rivedere la maravigliosa città dei miei sogni, e le sue vie, e li suoi offizi e istrumenti meccanici, che fecer'mi tutta la vita istudiare onde ricercare il modo di costruirli con mia mano. E io però penso che tosto il vedrò, inperò che sento essere io giunto al termine del terreno mio viaggio, e con questo de la mia ricerca e del tanto ragionare. E voglia Iddio ch'io al fine scuopra ciò che massimamente ricercai, over di cognoscer la ragione de le cose, e veder la luce su tal misterio che fu a me, prima che alli altri, quello de la vita mia.

Tale ancora mi dico e mi firmo, Leonardo, di ser Piero, da Vinci.

Racconto pubblicato su "L'eterno Adamo" Vol. II, Anno III, n° 8 (Agosto 1992)
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Ultima modifica: 6 maggio 2003
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