I racconti del Gaunt

Ancora una volta

La vita esiste in quanto esiste la morte,
e cos'è la morte se non lo spazio tra una vita e un'altra?

Quella volta era risorto in modo un po' diverso. Sì, c'erano state le visioni ed i soliti dolori fluidi e caleidoscopici, ma la sensazione di sgusciare disperatamente fuori da un oscura spirale pulsante che cercava di trattenerlo era durata meno del consueto. In compenso la resurrezione era stata accompagnata da una vibrazione profonda, viscerale, dal ritmo sommesso ma ossessionante che l'aveva stremato e che non aveva mai notato prima. O forse sì, forse in qualche volta precedente era già successo anche questo, chissà…

Pian piano qualcosa di simile alla coscienza cominciava in parte a riaffiorare. La sensazione di stare guardando attraverso una lente deformante andava lentamente diminuendo, e la stanza sembrava stranamente riassestarsi fra i banali angoli retti delle sue pareti. Chissà perché il suo sguardo, dolorosamente limitato alla sola direzione anteriore, non riusciva più a spaziare liberamente attorno e dietro di sé. La profonda vibrazione che aveva sfibrato il suo io era cessata, o almeno non era più chiaramente percepibile nel caos dei suoi sensi sovraccaricati dalla pulsante presenza della semioscurità. Un senso di dispiacere e delusione accompagnava questo lento sprofondare in basso verso un universo alieno e beffardamente incoerente. Per un attimo era stato sul punto di far collimare le equazioni, aveva quasi organizzato in strutture sensate le forme evanescenti che fluttuavano attorno ed attraverso la sua coscienza distorta, ma ora tutto stava irrimediabilmente dissolvendosi attorno a lui lasciandolo triste e confuso. Anche la scarsa luce del giorno che filtrava debolmente dalle persiane socchiuse stava rapidamente riassumendo la sua impalpabile e banale consistenza abituale, mentre il suo aspetto pian piano scoloriva dallo scintillante violetto al monotono giallo paglierino. I fantastici fosfeni che avevano abbagliato il suo cervello con sprazzi di colori assurdi e incredibili fantasmagorie iridescenti perdevano di intensità e si dissolvevano ai lati del suo campo visivo che andava sempre più restringendosi.

Improvviso e vivido balzò alla sua coscienza un episodio di quando era stato un'ameba. Fitte lancinanti gli avevano improvvisamente fatto ritrarre lo pseudopodo che aveva estroflesso per esplorare il terreno circostante. Lo sgradevole sapore di un composto chimico mai incontrato prima d'ora bruciava sulla sua membrana. Chissà, forse era meglio rinunciare a quel succulento paramecio che aveva percepito a poca distanza da lui.

Da quanto tempo succedeva? Ere? Anni?… Anni. Venti? Forse, almeno venti se non trenta. Venti anni. Anni… Anni? Già, quanti anni aveva? Con uno sforzo ricordò che erano meno di trenta. Dunque non potevano essere trent'anni che tutte le mattine resuscitava. O forse sì… perché no? Perché non dovrebbe essere possibile resuscitare prima ancora di essere nati? Prima di… esistere?

Esperienze eterogenee si accavallavano l'una all'altra, visioni talvolta elusive ma più spesso dolorosamente reali. Momenti eterni in perpetuo mutamento, sensazioni così profondamente fisiche da annichilire quel po' di ragione e di pensiero che andavano sempre più prendendo coscienza nel suo sé. Giaceva immobile e rilassato nella sabbia, i lunghi arti raccolti sotto il robusto carapace, e filtrava incessantemente l'acqua ricca di saporito plancton. Sentiva nitidamente la debole corrente spostargli delicatamente le lunghe antenne, percepiva intensamente il flusso di vita microscopica attorno a lui, si inebriava dei fantastici disegni cangianti che la scarsa luce dipingeva sul fondale circostante. Ogni tanto, lentamente, muoveva un occhio per controllare l'eventuale arrivo di predatori indesiderati. Si sentiva sazio, oramai. Aiutandosi con le piccole chele scavò una buca e vi penetrò quasi per intero, seppellendosi nella morbida sabbia. Lasciò sporgere solo i due peduncoli oculari, ma non di molto. Presto ritirò anche quelli, penetrò ancor più nella improvvisata tana e rallentò il suo metabolismo. Rilassato ed al sicuro abbandonò la sua coscienza e si addormentò.

Venti anni? Trenta? Quante volte era resuscitato? Ogni volta era sempre uguale, tranne forse quella volta. Eppure ogni volta era come la prima, anche se in un certo senso era invece sempre diversa, sempre temuta e inaspettata nella sua ineluttabilità. Quante mattine ci sono in vent'anni? Quante vite si possono vivere in vent'anni? Ora stava sopraggiungendo la calma, e con essa la spossatezza. Già non ricordava più nitidamente le sensazioni di poco prima. La sua memoria troppo provata procedeva lentamente ad annegare i brandelli di ricordi impossibili nel mare di banalità sensoriali che silenziosamente lo bombardavano dal mondo esterno. La polvere brillava fluttuando nel raggio di sole, ferendo le sue pupille che a fatica stavano abituandosi alla ristretta visione a colori.

Schegge di ricordi, frammenti di sensazioni riemergevano ancora nel caos della sua mente lacerata. E il suo corpo ricordava con lui. Ricordava nitidamente un sole troppo caldo e troppo piccolo, un suolo troppo asciutto, un mondo troppo alieno reso ridicolo dalla prospettiva distorta fornita dai suoi occhi non adatti alla visione fuori dall'acqua. Già, l'acqua. Per la prima volta, vincendo il suo istinto, era riuscito a fare a meno dell'acqua per quasi un intero giorno. Le sue squame disidratate gli dolevano tanto che non riusciva quasi più a trascinarsi sulle robuste pinne pettorali, ed il ventre teso era cosparso di abrasioni che si era procurato strusciando sul suolo ruvido. Non sentiva quasi più le branchie da quanto erano secche ed irritate, la sua mente semplice era stanca ed intorpidita e non ne poteva più di respirare l'incandescente, polverosa, odiosa aria del mondo di sopra. Si stava infine dirigendo faticosamente verso il luogo ovattato da dove era venuto, stanco e distrutto tornava nell'ambiente per il quale era stato creato e nel quale aveva vissuto con i suoi simili per milioni di anni. I suoi organi di senso già percepivano la rivitalizzante umidità marina di fronte a sé, e per affrettarsi il più possibile si spinse con goffi movimenti della pinna caudale. Ancora pochi sforzi e sarebbe giunto alla riva. Da lì con un ultimo guizzo sarebbe stato al sicuro nell'accogliente liquido che lo rendeva agile e felice, nelle profondità azzurre che erano l'unico vero ambiente adatto alla vita. Ma forse no; dopotutto aveva conquistato quel mondo alieno ed inospitale che faceva a meno dell'acqua, ed era riuscito a viverci anche se per un breve periodo. Il suo istinto lo faceva sentire stranamente fiero di ciò, anche se non capiva perché. Chissà, forse una volta o l'altra ci sarebbe ritornato…

La gamma delle sue percezioni si era ormai ristretta mentre la stanchezza andava aumentando. La temperatura esterna sembrava calare ed il suo io appesantito sprofondava in una materia sempre più pesante e goffa. Freddo, paura. Precipitava ancora, ma dentro di sé. Una improvvisa sensazione tattile estesa all'intero corpo risvegliò la sua attenzione ancora scoordinata: un oggetto solido, un corpo dotato di massa toccava il suo. Anzi, lui vi si trovava sopra. Forse era sempre stato lì, ma prima non se ne era accorto. Cos'era? Freddo e lontano… no, non lontano. Morbido. Avvolgente. Duro. Cedevole. Un improvviso strappo all'interno della sua mente lo spaventò ma poi lo riempì di sollievo. Ora ricordava chi era e dov'era. Giaceva su un letto, in una posa scomposta, ancora ansimante e madido di sudore. Ancora una volta era sopravvissuto alla resurrezione… forse. A lungo andare sarebbe diventato matto. Probabilmente era già matto, o magari lo era stato un tempo.

Paura! D'istinto si gettò giù dall'albero, ed il familiare odore pesante di muschio e felci umide lo colpì con inaspettata violenza. Cadeva da un'altezza prodigiosa mentre il cuore gli martellava nel petto e nelle tempie. Dopo pochi attimi allargò gli arti e subito sentì l'aria scorrere sul patagio e scuotergli inebriante la morbida pelliccia del dorso. La caduta rallentò e sapienti movimenti delle zampe e della coda corressero la traiettoria. Il ramo sottostante si avvicinava rapidamente; con innato tempismo si afferrò al bersaglio piantando le unghie nella morbida corteccia e si portò agilmente in salvo sul nuovo albero. Prima di spiccare un altro balzo lanciò di sfuggita uno sguardo al grande predatore dalle ali membranose che volteggiava nel cielo. Le lunghe mascelle dentate si aprivano e si chiudevano mentre la sottile coda sferzava l'aria. Pur da lontano il suo freddo sguardo da rettile trasmetteva chiaramente tutto l'odio per la perdita della pur piccola preda.

A volte aveva urlato durante la resurrezione. Certe esperienze erano troppo forti e troppo vivide, più coinvolgenti di qualsiasi cosa avesse mai provato, più vere e presenti dei ricordi reali della sua vita di tutti i giorni. Da tempo però non gridava più, erano oramai troppi gli anni trascorsi in questo modo. No, non si era abituato al fenomeno, non si sarebbe mai abituato. Ma giorno dopo giorno era subentrata in lui una inconsapevole rassegnazione che in certa misura ne mitigava gli effetti rendendolo accettabile e perfino naturale. Da giovane sì che aveva urlato. Urlava quasi ogni volta, prima ancora di riprendere coscienza, e spesso anche dopo. Piangeva e urlava e giurava che non avrebbe più dormito, che si sarebbe ucciso piuttosto che dormire un'altra volta. Non si può morire tutte le notti e resuscitare tutte le mattine, e non in questo modo. Ma oramai ripeteva queste sensazioni tutte le mattine, da diverse migliaia di mattine, ed ogni volta sperava che sarebbe stata l'ultima. E sapeva bene che non lo sarebbe stata.

Freddo. La sua folta pelliccia bruna non era sufficiente a ripararlo dal gelo del grigio mondo così familiare. Grigio scuro il cielo, grigio chiaro il terreno rotto a tratti da brulle chiazze scure. La poca erba marrone e secca che spuntava qua e là non bastava come nutrimento. Non avrebbe dovuto allontanarsi così tanto dalla tana, ma i cuccioli affamati e infreddoliti reclamavano il cibo. Trotterellava sul suolo semigelato alla ricerca di tracce, mentre dalla bocca e dalle narici uscivano ritmicamente sbuffi di vapore che subito si disperdevano. All'improvviso sentì un rumore sordo non troppo lontano. Drizzò le orecchie e si fermò vigile, esplorando con tutti i sensi tesi la spoglia valletta circostante. Lentamente ed in silenzio risalì il leggero crinale e ben presto vide in lontananza l'animale. Il suo tasso di adrenalina aumentò rapidamente e la sua attenzione si concentrò su di lui, facendogli dimenticare il freddo. Era un bipede enorme e sproporzionato, dalla pelle ruvida e pesante di colore marrone verdastro. Ora che la brezza era girata ne percepiva anche il caratteristico odore penetrante che credeva di aver dimenticato da tempo. La sua robusta coda strusciava pesantemente al suolo lasciando solchi là dove c'erano ancora chiazze di neve fresca. Per osservarlo meglio acuì lo sguardo socchiudendo gli occhi nell'aria pungente e trattenne addirittura il respiro. Era da molti inverni che non vedeva una creatura come questa. Gli sembrò di ricordare che un tempo, quando era cucciolo, ce ne fossero molte di più, ma forse si sbagliava. Certo questa si muoveva troppo lentamente, era goffa ed imprecisa. Non sembrava pericolosa come quelle che aveva conosciuto in passato. Invece di schiantare i pochi alberi e distruggere ogni forma di vita attorno a sé barcollava intorpidita nella pianura fredda e sterile, muovendosi lentamente, troppo lentamente. Mentre la guardava e cercava di capire cosa non andasse in lei, la bestia spalancò la terribile bocca senza però emettere suoni, roteò gli occhi gialli e cadde pesantemente in avanti artigliando l'aria con le corte zampe che le sporgevano dal petto. La coda si muoveva ancora spasmodicamente avanti e indietro, e continuò a sussultare debolmente anche dopo che le pesanti palpebre senza ciglia ebbero coperto quei grandi, terribili occhi gialli dalle pupille verticali. Mentre si avvicinava al possente sauro oramai immobile sentì un altro odore, questa volta molto familiare, e capì che non era stato il solo ad aver assistito alla scena. Altri animali, come lui dotati di pelliccia e come lui a sangue caldo, avevano atteso la morte del mostro e si stavano ora avvicinando. Pensò a quanti altri cuccioli in quel momento stavano attendendo il cibo. Non era il caso di litigare con i suoi simili degli altri branchi, sicuramente la bestia sarebbe bastata per tutti e forse anche avanzata. La sua pelle squamosa era dura e coriacea ma il dentro non era immangiabile. Sicuramente i suoi cuccioli lo avrebbero apprezzato molto.

Aveva pensato di uccidersi, tanto tempo fa. Forse l'aveva anche fatto, chissà. Uno che resuscita tutte le mattine non può uccidersi… Forse però era già morto quando aveva deciso almeno di non dormire più. Per qualche tempo ci era riuscito, o così gli era sembrato. Tuttavia era stato un successo breve ed effimero. La morte si può sconfiggere ma il sonno no. E dopo il sonno viene implacabile il risveglio, e con esso quella dolorosa restituzione ad una vita aliena e ad una detestabile forma estranea, la sua perpetua resurrezione personale perpetrata migliaia di volte attraverso migliaia di vite senza ragione n´ significato.

Questa pietra gli era venuta meglio di tutte quelle che aveva mai lavorato. Accovacciato fuori dalla capanna rigirava l'attrezzo nelle mani tozze e callose e lo guardava con soddisfazione. Ci era voluto un sacco di tempo. Ci aveva messo tutto il suo impegno per scheggiarla nel modo opportuno, ed ora era finita. Perfetta, bellissima, il suo io ne gioiva. Di forma tondeggiante per poter essere impugnata saldamente, affilatissima ad un'estremità e smussata all'altra. Più spessa al centro perché avesse la giusta robustezza e nel contempo fosse ben bilanciata. Con quella pietra avrebbe potuto catturare e scuoiare le sue prede molto più facilmente. Era di certo il miglior lavoratore di pietre di tutto il villaggio, e quella era la miglior pietra mai lavorata a sua memoria. Non vedeva l'ora di adoperarla per suscitare l'ammirazione e l'invidia degli altri cacciatori.

Fili, fili che partivano dalla sua testa e dalle tempie. Fili che sembravano avvilupparlo e gli impedivano di muoversi. No, non del tutto; la testa si muoveva agevolmente e le braccia erano del tutto libere. I fili, di molti colori, finivano in un complicato apparecchio posto a fianco al suo letto. La stanchezza aumentava. Un ronzio sommesso proveniva dalla macchina, ma non era affatto simile a quello che aveva disintegrato e trafitto il suo io durante la resurrezione, i cui echi ancora gli ottenebravano a tratti la mente. Quei fili, ricordò ad un tratto, captavano le emissioni elettriche del suo cervello e le trasmettevano alla macchina che le misurava e le registrava. In un'altra stanza rotoli di carta percorsi da tremiti d'inchiostro stavano fuoriuscendo a velocità costante da un'altra macchina collegata a questa. Forse c'era anche qualcuno a guardare i tracciati. Per quanti anni aveva dormito coi fili sulla testa? Tre, forse. O trenta. Che importanza ha?

La notte era fresca e calma. Dalla finestra scavata nella pietra guardava la luna piena, vigile ed immobile sopra il buio abisso fra le colline. Ancora non aveva indossato l'antico copricapo cerimoniale col suo ricco ornamento di piume. Le torce profumate che rischiaravano la stanza traevano rapidi bagliori dorati dalle fibbie e dai medaglioni che ornavano il suo sfarzoso abbigliamento. Il popolo era già raccolto attorno all'altare: anche a distanza ne sentiva il rumore, anche attraverso la pietra ne percepiva la pesante presenza. Ancora una volta avrebbe compiuto il suo dovere e per un altro anno il Serpente Piumato avrebbe assicurato alla Città pace e prosperità. Era oramai giunto il momento, ma ancora non si decideva ad uscire dai suoi appartamenti per raggiungere le file dei sacerdoti che, schierati in rigoroso ordine di casta, lo attendevano sui gradini di pietra consunti dal tempo. Le mani gli tremarono nell'atto di allacciarsi al fianco il coltello sacrificale. Guardò per l'ennesima volta la lama ricurva e l'impugnatura costellata di gemme. Un brivido, non solo di freddo, lo scosse. Cominciava evidentemente ad invecchiare. Ricordi dei molti anni trascorsi gli si affacciarono nebulosi alla memoria, mentre la vibrazione nell'aria si faceva quasi dolorosa ai suoi sensi ipertesi. Indossò lo sgargiante copricapo, respirò profondamente e chiuse il suo cuore e la sua mente ai pensieri. Assunse un aspetto solenne e, con passo maestoso, si diresse verso il lungo corridoio lastricato che conduceva al tempio.

Molte ere, o anni, fa era rimasto colpito quando aveva scoperto che nessuno fra i suoi simili condivideva le sue esperienze. Aveva infatti assunto come naturale ciò che da sempre, o almeno da quando riusciva a ricordare, viveva ogni mattina. Aveva imparato a convivere con le sue resurrezioni, quasi ad amare le visioni che regolarmente lo trascinavano in altre ere, in altri luoghi ed in altri corpi. Poi aveva scoperto di essere unico, e solo. Nessuno conosceva le sensazioni che lui provava, nessuno viveva le sue esperienze, nessuno aveva mai provato o solo immaginato cosa significasse rientrare dolorosamente in un corpo ed in una mente dopo aver vagato fuori di esse durante il sonno. Rabbia, costernazione, prostrazione, odio, disperazione, tutto ciò provò per lungo tempo da allora. E rassegnazione, abbandono ad una sorte che non si può cambiare neppure con la morte. E, stranamente, dispiacere. Ma soprattutto solitudine. Perché nessuno avrebbe mai potuto condividere le sue visioni meravigliose, n´ spiegargliele.

Non era la prima volta che si trovava al timone durante il turno di notte. Anzi, succedeva piuttosto spesso perché amava la notte, e la notte sul mare. Ma serate come quelle erano rare anche per la sua esperienza. Una notte di luna nuova, buia come mai notte era stata buia, e per di più in piena bonaccia. I suoi compagni dormivano e lui aveva addirittura spento la rossa lampada che, pur debolissima, gli feriva intollerabilmente gli occhi. Aveva i brividi ma gli piaceva star solo in quel buio assoluto e sentirsi un piccolo puntolino senziente perso in un universo nero e lontano, un universo freddo ed incurante di lui e delle sue insignificanti vicende. Nell'oscurità che lo circondava in ogni direzione riusciva a distinguere il mare dal cielo solo perché quest'ultimo era ricoperto di stelle, tante e così nitide quante non ne aveva viste mai. Sopra ed intorno a sé il morbido buio era circonfuso da una sottilissima polvere d'argento sparsa irregolarmente ed interrotta qua e là da un puntolino ardente di vividissima ma gelida luce. Grazie alle stelle percepiva la presenza dell'ampia vela quadra che appariva solo come una voragine più buia dello stesso buio, ritagliata di netto nell'immenso tappeto luminoso. Era solo al centro del nulla, confuso nell'immensità del cosmo più sterminato che ci fosse, intimorito ma anche inorgoglito alla vista di questa immagine estatica rubata agli déi. Per un attimo fremente desiderò di confondersi col Tutto; ma subito l'impossibile comunione si infranse e tornò dolorosamente cosciente del suo misero essere, dell'umido legno sotto di sé, della barra del timone fra le sue ruvide mani, dello sciabordio dell'acqua nerissima, dell'eterna lontananza delle stelle, del freddo del buio e del nulla, dell'incuranza beffarda con cui le irraggiungibili sfere avevano da sempre ruotato sulle teste dei marinai e dei sognatori. E senza una precisa ragione pianse dentro di sé.

Una voce? Sì, quel suono soffocato che giungeva da dietro una parete o dall'altro lato dell'universo era una voce. "…è piatto. Guardi quel tracciato!…". L'aveva già sentita tante volte. Cosa diceva? Un'altra voce, concitata. "…in piena fase REM, non è possibile…". Aveva forse a che fare con i fili? "…nulla da fare, oramai è piatto…". Era stanco, troppo stanco per capire. "…e quella strana attività precedente?". Ci avrebbe pensato un'altra volta. Alla prossima resurrezione. "…mai visto nulla del genere…"

Racconto pubblicato su "Asteroidi" (Intercom, 1991)
Copyright © 1991, Corrado Giustozzi. Tutti i diritti riservati.

Ultima modifica: 6 maggio 2003
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